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Perché mangiamo anche quando non abbiamo fame?

  • Immagine del redattore: Dr. Giorgio Cornacchia
    Dr. Giorgio Cornacchia
  • 19 nov 2021
  • Tempo di lettura: 3 min

Il cibo, che fino alla metà del ‘900 era un bene di difficile reperibilità, soggetto a limitazioni dovute a crisi economiche, carestie e quant’altro, è oggi invece altamente disponibile, facilmente accessibile e la sua immissione sul mercato è nelle mani di aziende e multinazionali, i cui messaggi di marketing e le cui strategie di vendita e promozione hanno trasformato i nostri consumi e il valore che attribuiamo loro.

Un’analisi molto interessante è quella offerta da David Kessler che, unendo osservazioni provenienti dal mondo delle neuroscienze, della pedagogia, del marketing e delle scienze della nutrizione, ha analizzato e descritto un nuovo comportamento alimentare disfunzionale da lui denominato “iperfagia condizionata”. Si tratta di un “impulso” a mangiare che intrappola il soggetto in processi nei quali motivazione e abitudini alimentari si sovrappongono, pilotati da un’alterata azione di dopamina e oppioidi rilasciati in alcune aree ipotalamiche del nostro cervello. Tali circuiti neuronali non vengono più attivati da stimoli interni al corpo, bensì esterni, presenti nell’ambiente di vita, che inducono a mangiare sempre tanto, soprattutto cibi iperappetibili, indipendentemente dal reale bisogno su un piano organico.

Alla base dell’iperfagia condizionata, secondo Kessler, ci sono quattro elementi che ne diventano fattori determinanti:


  1. L’estrema disponibilità di cibo negli ambienti di vita, condizione che automaticamente ne aumenta l’assunzione. Tale aspetto diventa altamente problematico in età evolutiva, quando il soggetto apprende uno stile alimentare in cui ciò che impara a mangiare è il risultato della sua capacità di trovare equilibrio tra il principio dell’omeostasi e quello della gratificazione. Il primo permette l’introduzione di cibo in quantità tali da compensare il dispendio energetico associato al metabolismo basale e altre attività effettuate nel corso di una normale giornata. Il principio dell’omeostasi non viene rispettato nel momento in cui un soggetto assume molte più calorie di quelle che gli necessitano e questo spesso deriva dal secondo fattore in gioco, il principio della gratificazione che muove l’essere umano verso la ricerca di esperienze che generano piacere. L’estrema disponibilità di cibo nell’ambiente di vita ha spostato le abitudini alimentari sempre più verso il principio della gratificazione, sminuendo la funzione autoregolatoria rispondente al principio dell’omeostasi.

  2. La capacità del cibo di diventare fonte di “pregiudizio attenzionale”, ovvero di concentrare l’attenzione e il desiderio di un soggetto che, avendolo nel proprio campo percettivo, se ne trova inconsapevolmente e irresistibilmente attratto. La differenza tra bisogno fisiologico di mangiare e desiderio di mangiare dipende da aspetti motivazionali che hanno una differente base neurobiologica, condizionata dalla funzione neuroregolativa della dopamina. Essa, infatti, aumenta la propria concentrazione nelle aree neuronali che spingono e motivano il nostro comportamento verso uno scopo piacevole ed è il fattore chiave alla base del processo definito come pregiudizio attenzionale.

  3. L’iperappetibilità degli alimenti, costruita ad hoc e artificialmente dall’industria alimentare. E’ appetibile, in senso letterale, un cibo che, una volta assunto, induce a mangiarne ancora. Tale caratteristica dipende dalla funzione di percezione gustativa presente sugli organi di recezione sensoriale distribuiti sulla lingua, le papille gustative, e dalla predisposizione individuale per cui ciascuno di noi è spinto a cercare quella tipologia di sapori, condizione che induce nel soggetto la motivazione automatica a volerne assumere ancora.

  4. La stabile modificazione della struttura del nostro cervello, che genera alterazioni nei circuiti neuronali: si assume più cibo a causa di un fenomeno regolato da neuromediatori che generano un processo abbastanza simile a quello delle tossicodipendenze classiche. Un cibo iperappetibile altamente disponibile nel nostro ambito di vita può divenire fonte di pregiudizio attenzionale, facilitando il nascere nel soggetto di un forte desiderio di assumerlo, condizione che viene rinforzata dal contemporaneo rilascio di dopamina. Tale neurotrasmettitore motiva l’individuo a dirigersi verso di esso così da consumarlo, azione che placa il desiderio e permette di sperimentare il piacere promesso, connotato dal rilascio di oppioidi endogeni. E’ questa combinazione che induce nel soggetto una specie di “coazione a ripetere”, attraverso la ricerca ulteriore di quel tipo di cibo.

Questi 4 aspetti determinano quindi, secondo Kessler, il nuovo comportamento alimentare disfunzionale denominato iperfagia condizionata, che trasforma lo stimolo alimentare degli esseri umani da motivato a indotto e abitudinario, spingendoci a mangiare anche quando non abbiamo fame.


 
 
 

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